Impressioni Jazz " Sonbahar" (2007) di Ozcan Alper Recensione
SONBAHAR
/AUTUNNO
Yusuf (Onur Saylak) non era solo uno studente promettente, appassionato di matematica, ma un giovane turco- armeno che aveva a cuore libertà e giustizia sociale nel proprio paese. Per esse aveva investito molta parte delle proprie energie partecipando alle lotte del movimento studentesco dei primi anni novanta. Poi repressione e carcere duro, da cui uscirà solo per una grave malattia polmonare. Ed è qui che il film inizia, con un avvio che porta già con sé il suo epilogo. Nel mezzo, un ritorno; alla propria casa, sulle montagne a ridosso del Mar Nero, all’anziana madre che sempre lo aspetta, a un amico d’infanzia… Mondo d’un tempo lontano in cui si ritrova immerso e al quale, come un condannato a morte, non sembra chiedere altro che un po’ d’ospitalità. Per contemplarlo nella sua bellezza di natura e di affetti che s’appresta a lasciare, in una sorta di solitudine cosmica e destino fatale. Un film fatto di silenzi, che non dà spiegazioni, solo poche tracce mentre conduce lo spettatore insieme a Yusuf, tra i suoi sentimenti, e una natura che irrompe in sintonia con gli stati d’animo, progressione di alternanze e fissità di inquadratura, che acquieta col suo verde lussureggiante o incupisce nell’oscura caligine, senza mai risplendere e sempre più incontro al tumulto, verso i marosi, alti e gonfi fino ad inghiottire. Lo specchio del temperamento romantico di Yusuf, che non ci sta a mettere una pietra sul passato, a fregarsene degli ideali, come gli consiglierebbe l’amico imprenditore- falegname, che si è adattato al nuovo corso liberista. Perché il passato ritorna, incubi notturni che tratteggiano il presente, flash back di manifestazioni, scontri, irruzioni di militari…in una struttura filmica ( montaggio di Thomas Balkenhol), che non spezza mai il legame con l’inizio. Da un posto per morire non si scappa facilmente. Anche quando sembra accendersi la luce di una speranza. L’incontro in città con Eka (Megi Koboladze), immigrata ragazza madre georgiana, che si prostituisce per mantenere la famiglia lontana, ne è riconferma. Un ritrovarsi tra due anime sperdute. Lei sensibile, appassionata di letteratura russa (si conosceranno in libreria) ma troppo giovane e sradicata, per poter capire quell’uomo solitario, fiero e tanto diverso dagli altri, con alle spalle dieci anni di carcere perché voleva il socialismo… E troppo solo, fiaccato nel corpo come nello spirito, per osare nuovi viaggi. Il futuro di Yusuf sono le sue radici, in quella sua terra antica, immiserita e spopolata, di fatiche, funerali e accompagnamenti di bare, dove solo gli anziani sostano, vagheggiando lo sviluppo turistico. Aria aperta e libera, per meditare, in compagnia dell’immancabile sigaretta, la panchina davanti alla propria casa per dormire, mentre la natura autunnale si carica di saturazione struggente come nel quadro portato con sé all’uscita della prigione. Aria per il respiro, finché l’invernale manto nevoso non si stenderà sulla panchina lasciata vuota. La fotografia, di notevole impatto emotivo, è di Feza Çaldiran.
Opera prima,
dopo i cortometraggi, e già profondamente matura, in dialetto armeno hamshin,
del giovane regista- sceneggiatore turco Özcan Alper.
Film d’apertura del Med film festival e Menzione speciale della giuria. Roma
2008
Silvana Matozza
Articolo pubblicato sulla rivista di cultura e spettacolo Vespertilla, anno VI n° 1 - Gennaio/Febbraio 2009